Nel 2001 la Commissione Europea pubblica il “Libro Verde: Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” nel quale definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa ( Corporate Social Responsibility ) come una “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.
In parole povere, si tratta della volontà delle imprese di prendersi a cuore le problematiche d’impatto sociale ed etico, sia al proprio interno che all’esterno, in particolare – ovviamente – nelle zone di attività delle imprese stesse.
Il concetto è innovativo, ma non è nuovo. Nel 1984 il filosofo statunitense Robert Edward Freeman – nel suo saggio “Strategic Management: a Stakeholder Approach” – formula la teoria degli stakeholder, secondo la quale l’attività di un’organizzazione aziendale deve garantire un minimum prestazionale a tutti i portatori di interesse, vale a dire azionisti, clienti, dipendenti, fornitori e l’intera comunità entro la quale l’organizzazione interagisce. Ma già nel 1928 il “Pioneer Fund” di Boston si riproponeva investimenti eticamente connotati.
“Va bene tutto questo”, ci dirà qualche sostenitore di Milton Friedman, “ma perché mai dovrei occuparmi di fare anche investimenti/attuare comportamenti eticamente e socialmente corretti? Non basta che io faccia profitto, aumentando gli utili della mia impresa e i dividenti di eventuali soci?”.
NO. perchè il mondo globalizzato sta cambiando ed in esso c’è una sempre maggiore richiesta di attenzione ai diritti, all’ambiente, all’etica. E questa richiesta viene fatta anche alle aziende alle quali, verosimilmente, non basterà più la sponsorizzazione di un evento umanitario per ammantarsi di un alone di “impegno sociale”; serviranno chiarezza, credibilità e coerenza.
Ed in quello che per una azienda può risultare insuperabile può riuscire una marca.
Se supportata da adeguate politiche di branding.